Il tema del seminario/workshop SSV – Segni Sul Volto (2021-2022) era il volto – penalizzato dalle mascherine nel periodo della pandemia – come principale strumento di comunicazione tra gli esseri umani. Il progetto, supportato da Le Arti Orafe – che ha messo a disposizione energie, materiali, strumenti, laboratori, la competenza dei propri assistenti orafi – è stata un’occasione per approfondire il valore etico, culturale, sociale e antropologico della decorazione applicata al viso, ma anche per riflettere sui mutamenti in atto del nostro presente e sulle prospettive future. Gli 11 partecipanti che hanno presto parte al gruppo di lavoro erano designer, architetti, orafi e artisti del gioiello di diversa età e formazione (Annarita Bianco, Micol Ferrara, Gisella Ciullo, Cristian Visentin, Giulia Morellini, Tongqiang Bai, Barbara Uderzo, Simona Materi, Letizia Maggio, Silvia Sandini e Claudia Zanella). SSV si è aperto con un seminario che ha dato parola ad esperti di diversa provenienza: l’antropologo Francesco Bravin, la storica del gioiello Maria Laura La Mantia, la storica dell’arte Alessandra Menegotto, la docente, designer e ricercatrice Chiara Scarpitti, la docente di Design e Creative arts Roberta Bernabei.
È seguita una seconda la fase di progettazione collettiva, condotta online, e una terza in presenza presso i laboratori di LAO. Il lavoro si è concluso con un ultimo sforzo di collaborazione a distanza e i risultati sono stati presentati con una mostra e una conferenza dedicata in occasione della Florence Jewellery Week 2022, la capofila di tutte le settimane italiane dedicate al gioiello.
Artiste in dialogo è il titolo della mostra collettiva di gioielli curata dalla dott.ssa Mirella Cisotto Nalon che inaugura il 17 novembre presso l’Oratorio di San Rocco a Padova. In esposizione i lavori di Karin Roy Andersson, Bettina Speckner, Barbara Uderzo, Flora Vagi e di Carla Riccoboni, la quale, accanto ai pezzi più significativi della sua produzione storica, presenta Voci e Veli, le sue opere più recenti nate un anno dopo l’esperienza di SSV. Con l’occasione sarà esposto anche uno dei tre pezzi prodotti durante il workshop.
Alice Rendon: Cara Carla, in qualità di docente di Storia del Gioiello Contemporaneo presso LAO, Giò Carbone mi ha incaricata di affiancarti in veste di coordinatrice, di accompagnarti nel progetto SSV. Il dialogo, tra noi due soprattutto, è stato elemento fondante di tutto il lavoro, cardine su cui ha ruotato l’esistenza stessa del progetto, e, in maniera simile, mi trovo ora a interrogarti sugli esiti di quest’esperienza tanto ambiziosa e densa di contenuti, quanto travolgente e complessa per tutti coloro che ne hanno preso parte, me compresa. Io stessa non ho resistito dal tuffarmi a capofitto nel progetto: ho voluto stimolare il gruppo a liberarsi da ogni spinta personalistica, fondere gli sforzi in un’unica soluzione collaborativa, riversarsi in un oceano creativo comune. Il confronto continuo ha animato i nostri numerosi appuntamenti: aprirsi all’apporto dell’altro, assorbirne gli stimoli e da lì avanzare, in una continua risposta adattativa come unica via per il procedere condiviso. Ti chiedo oggi, a distanza di tempo, quali sono a tuo parere i contributi e quali i limiti di quest’esperienza plurale. Come giudichi i risultati ottenuti?
Carla Riccoboni: In effetti SSV è stato un lavoro di ricerca molto appassionante, che ha coinvolto profondamente tutti noi. Non era facile confrontarsi collettivamente dopo l’isolamento per la pandemia, che aveva aperto molte domande, sui cambiamenti in atto, sul ruolo dell’oreficeria, sulle nuove tecnologie, sul futuro. Lavorare insieme su questi temi complessi ha permesso di arrivare ad un notevole approfondimento teorico e ha fatto emergere una grande ricchezza di idee, impensabile col lavoro individuale. Una parte delle proposte rimanevano ancorate alle tradizioni artigianali, ma emergevano anche idee molto innovative, applicazioni inedite della tecnologia – ad esempio l’idea di gioielli in grado di interagire col calore, col vento, con l’umidità (Annarita Bianco). Emergevano anche riflessioni sul bisogno di protezione dall’invadenza dell’esterno, il bisogno di mettere dei filtri tra sé e il mondo.La difficoltà era proprio arrivare ad una sintesi, rispettando e valorizzando tutti gli apporti individuali. Il tuo intervento è stato di grande impatto; è stato importante perché ha portato le scelte iniziali alla loro logica conclusione. Se il confronto era collettivo anche il progetto finale doveva esprimere una visione unitaria. Nella settimana in presenza trascorsa in laboratorio si era creato in modo naturale un clima di grande affiatamento e di scambio di competenze, nonostante la differenza di retroterra culturali e professionali tra i partecipanti. A distanza di tempo mi sembra che i risultati finali del lavoro – i tre oggetti, così densi di significati – siano un po’ freddi, ermetici, celebrali, dal momento che esprimono i concetti in modo più filosofico che artistico. Si è parlato di “dispositivo indossabile, mutevole, performante personalizzabile che amplifica, esalta o addirittura nega, certi sensi ed emozioni”* riguardo il primo pezzo, di “rapporto tra unicità e pluralità delle voci”* a proposito del secondo, di “relazione tra la voce e la vista”* del terzo. Manca quell’emozione che fa intuire con immediatezza i significati, il passaggio creativo, la sintesi propria del fare artistico che probabilmente è una prerogativa individuale, non collettiva. Questo forse è il limite del lavoro, che però non toglie validità al percorso fatto, anzi lascia comunque aperta questa possibilità. Il gruppo stesso si riconosceva nell’osservazione di Simona Materi, una dei partecipanti, che ha detto: “Non siamo riusciti a realizzare una forma, una forma pura […] Gli oggetti che abbiamo realizzato sono dei supporti, non delle sintesi […] Il petalo in sé, tolto dal supporto, perde la sua forza evocativa […] Noi non abbiamo fatto degli oggetti, ma un’esperienza”.
Alice: Il tema della vibrazione sonora che si affina organizzandosi in segni ha in qualche modo permeato la storia e l’evoluzione del tuo percorso professionale fin dalla fine degli anni ’70. A distanza di tempo si potrebbe tracciare una parabola ascendente, che parte dalla trascrizione libera a penna di oscillazioni che si propagano nell’aria, ovvero di rumori e suggestioni che si risolvono in 10 m di segni (Il Rotolo); passando per il vocabolario di forme incatenate le une alle altre ad articolare silenziosi discorsi nella materia preziosa e non preziosa (le serie Alphabet); approdando infine alla tessitura di Voci impalpabili a formare Veli metallici. Nei tre pezzi realizzati nel contesto di SSV le parole di tutti i partecipanti tradotte in segni grafici dall’algoritmo si sovrappongono in filigrana in uno sforzo corale. Ci racconti come il gruppo è approdato a quest’idea? Come si è risolto poi questo tema nel tuo lavoro individuale a seguito dell’esperienza collettiva?
Carla: Sì, c’è stato sicuramente un’evoluzione, e vorrei ribadire che proprio l’esperienza del lavoro collettivo di SSV mi ha dato gli stimoli per arrivare a Voci e a Veli. Quando, all’inizio del workshop, mi sono presentata al gruppo, ho raccontato la mia storia professionale e ho mostrato i miei lavori, le collezioni di oreficeria e il Rotolo, una mia opera di poesia visiva del 1979. In quell’occasione non avevo notato particolare interesse al riguardo. Successivamente invece, quando il gruppo stava affrontando la fase di progettazione, l’emozione suscitata da un’antica poesia cinese ha fatto riemergere l’intuizione che la voce potesse diventare segno, o forma. Nel Rotolo avevo trasformato i suoni in segni ‘a mano libera’; ora, nel 2021, un algoritmo poteva trasformare automaticamente le nostre voci in linee, segni, colori, che si potevano elaborare a piacere. È nato così il ‘petalo-voce’, un’immagine composta dall’insieme delle nostre voci, tradotte in linee orientate a formare un petalo, in ricordo della poesia cinese. Se la voce, strumento privilegiato della comunicazione, diventava forma, poteva anche diventare oggetto, con tutte le implicazioni pratiche e simboliche di questo concetto. “La voce permette il concetto di fusione, di stratificazione delle identità […] annulla l’identità senza distruggerla: la rende invisibile anche se presente”*. “Ascoltare la voce di tutti [significa] dare voce a tutti”*. Ho continuato a riflettere su questi temi anche dopo la conclusione del workshop, immaginando delle sue nuove applicazioni. Volevo realizzare dei gioielli semplici per visualizzare una frase, un suono, per dare voce e forma a esigenze personali o collettive per “indossare la propria voce”. Ho realizzato i primi pezzi col taglio laser, i collari e i bracciali Voci che saranno presenti in mostra. Ma per me che non appartengo alla generazione digitale, realizzare questi oggetti apparentemente semplici, richiedeva un team di competenze e molteplici collaborazioni (ringrazio Claudia Zanella e Agostinelli Srl per il prezioso aiuto) che limitavano e irrigidivano i risultati. Mi sono resa conto che c’è qualcosa di violento, di autoritario nella tecnologia. È una modalità di lavoro rigida, contraria al ‘pensare facendo’, che invece procede morbidamente lasciando spazio alle emozioni. Dopo la vertigine onnipotente degli algoritmi avevo bisogno di ritrovare la misura umana, la mia misura. Avevo assorbito, elaborato con grande interesse i contenuti della ricerca collettiva, sentivo il bisogno di esprimerli a mia volta, ma gli strumenti tecnologici mi bloccavano. Da qui l’idea di dissolvere collane e ornamenti della mia storia orafa in una forma simbolica astratta, materica, come un velo: una tessitura indossabile in metallo prezioso, realizzata a mano. Anche col filo d’argento tessuto a mano si poteva dare voce a istanze importanti, alle nostre paure, ai nostri sogni come ai grandi problemi della nostra società. Questo passaggio mi ha ricondotto al Rotolo. Ho ricominciato a lavorare con la stessa libertà, con la stessa gioia, trasformando le emozioni in segni, ritmi attraverso le mani, con una tecnica che prevedeva tempi di lavoro lunghi, umani, i tempi del pensiero, della riflessione, della cura… Ho riscoperto e lavorato con l’imperfezione, con gli squilibri e i riequilibri tipici della contemporaneità.
Alice: Durante la lunga gestazione del progetto, spesso ci siamo ritrovate a discutere apertamente riguardo il coinvolgimento di procedimenti CAD/CAM nella creazione di ornamenti. Lo sai, la tua anima artigiana mi richiama romanticamente alla mente personalità storiche come John Ruskin o il suo epigono William Morris, che si scagliavano contro l’impoverimento culturale e sensoriale provocato dalla meccanizzazione dei processi, o ancora Walter Gropius, che definiva l’artista un “artigiano potenziato”, la cui ispirazione può sbocciare solo in seno all’esercizio pratico, dal fare con le mani. Quali sono dunque le gioie del misurarsi direttamente con la materia grezza? Partendo però dall’assunto che il gioiello di ricerca si propone oramai come linguaggio artistico dotato di una sua prospettiva critica autonoma rispetto a qualsiasi altra forma espressiva, e come tale deve accendere e aprire alla riflessione, al dubbio, al dibattito, pensi esso possa prescindere dall’affrontare dall’interno la complessa questione delle nuove frontiere creative? In altre parole, se il gioiello contemporaneo riflette, parafrasando Agamben, le ombre e le luci del suo contemporaneo, può evitare allora di misurarsi anche con le potenzialità – e quindi i limiti – dei progressi tecnologici?
Carla: Non mi sento una nostalgica, non sono contraria al progresso, anche se negli ultimi anni, forse per la mia età, sto riscoprendo ogni giorno di più l’importanza della misura ‘umana’, dei sentimenti, delle emozioni. Sperimento ogni giorno l’utilità dei tanti strumenti tecnologici che ho a disposizione, ma anche il fastidio della dipendenza sempre più pervasiva che creano nella mia sfera personale. Come tutti mi pongo delle domande, ma non trovo risposte. La tecnologia crea facile entusiasmo per le prospettive che apre, ma credo sia necessario conservare uno spirito molto critico al riguardo. Apre frontiere inedite impensabili fino a pochi anni fa che stimolano la ricerca ma lasciano in ombra le domande fondamentali ed etiche, sul senso, gli obiettivi, i limiti, le conseguenze. È giusto esplorare delle tecnologie solo perché disponibili? Il settore dell’oreficeria ha davvero bisogno di procedere su questa strada, su questo tipo di innovazione? E se diventasse invece (o anche) l’ambito privilegiato, il custode della misura umana, delle tecniche storiche, dell’esercizio dell’intelligenza delle mani? Una parte del gruppo di SSV, le persone più giovani e preparate, ha interpretato questa esperienza collettiva come “una pratica e un processo che hanno permesso farci esplorare le forme ibride di convivenza e interazione tra individui, tecnologia e natura”*. Sono riflessioni importanti che mi sembra giusto riportare, ma che presuppongono un’accettazione inevitabile e ineludibile dello sviluppo tecnologico con tutte le sue conseguenze. Deve proprio essere così?
Alice: Padova è una cornice espositiva di grande significato se ci soffermiamo sui valori di cui il tuo ultimo lavoro in particolare è imbevuto: “manualità, memoria, bellezza”, come tu stessa hai detto. In che modo dunque quest’ultimo approdo del tuo percorso professionale, Voci e Veli, si confronta con un patrimonio denso come quello lasciatoci in eredità dai grandi maestri padovani? Considerando il panorama attuale offertoci dalle innumerevoli voci che animano un settore in espansione qual è quello del gioiello contemporaneo, quali sono le evoluzioni di concetto con cui ti sei dovuta misurare? Come sei arrivata infine a tessere il metallo?
Carla: Padova ha rappresentato per la mia generazione il più importante centro di sperimentazione orafa. A Padova operano e hanno operato da tre generazioni ricercatori di grande valore come Babetto, Pavan, Visintin, Zanella, che hanno applicato alla contemporaneità le tecniche orafe classiche. Avevo conosciuto Mario Pinton, che negli anni ’70 parallelamente al pezzo unico aveva dato impulso anche alle produzioni seriali per l’Atelier des Orfèvres di Longarone. La mia storia personale è più legata alla serialità, al territorio di Vicenza, centro industriale della produzione orafa dove vivo ormai da molti anni. Personalmente non ho avuto una formazione specifica orafa. Ho iniziato a sentirmi un’orafa quando ho cominciato a ricevere i primi riconoscimenti per la mia collezione di catene Alphabet, che in realtà è un oggetto di design basato su un sistema di incastri. Se Padova ha avuto il merito di conservare ed elaborare le tecniche orafe, a Vicenza l’obiettivo era di ottenere il massimo risultato estetico, contenendo i costi di lavorazione. Vicenza si è poi sviluppata sul catename industriale e sull’oreficeria stampata. A me è rimasto l’imprinting positivo del design che rende il gioiello di ricerca accessibile ad un pubblico più vasto, meno elitario. Questo invito ad esporre a Padova mi sembra un riconoscimento di questa seconda modalità di lavoro, che integra e completa il panorama italiano della ricerca. Saranno infatti esposti i miei pezzi storici, le catene Alphabet, le collezioni Venezia e Madreforme. Voci e Veli rappresentano l’altra faccia, meno conosciuta, dei miei interessi, come il Rotolo e le collane Bisanzio, dove emerge la mia predisposizione per il lavoro minuzioso e forse la mia sensibilità artistica.
La mostra, organizzata dal Comune di Padova, inaugurerà il 17 novembre alle 18 e sarà visibile fino al 18 febbraio 2024. Il 28 novembre alle ore 15.30 Carla Riccoboni condurrà il pubblico in una visita guidata sul suo lavoro esposto, in compagnia della curatrice.
*citazioni dei partecipanti al progetto SSV
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The theme of the seminar/workshop SSV – Segni sul Volto (Signs over the Face) (2021-2022) was the face – penalized by masks during the pandemic period – as the main means of communication between human beings. The project, supported by Le Arti Orafe – which provided energies, materials, tools, workshops, and the expertise of its goldsmith assistants – was an opportunity to explore the ethical, cultural, social and anthropological value of applied facial decoration, but also to reflect on the ongoing changes of our present and future prospects. The 11 participants who took part in the working group were designers, architects, goldsmiths and jewellery artists of different ages and backgrounds (Annarita Bianco, Micol Ferrara, Gisella Ciullo, Cristian Visentin, Giulia Morellini, Tongqiang Bai, Barbara Uderzo, Simona Materi, Letizia Maggio, Silvia Sandini e Claudia Zanella). SSV opened with a seminar that gave the floor to experts from different backgrounds: anthropologist Francesco Bravin, jewellery historian Maria Laura La Mantia, art historian Alessandra Menegotto, lecturer, designer and researcher Chiara Scarpitti, and professor of Design and Creative Arts Roberta Bernabei. This was followed by a second phase of collective design, conducted online, and a third phase in person at the LAO workshops. The work concluded with a final collaborative effort at a distance, and the results were presented with a dedicated exhibition and conference at the Florence Jewellery Week 2022, the spearhead of all Italian jewellery weeks.
Artiste in Dialogo (Artists in Dialogue) is the title of the group jewellery exhibition curated by Dr. Mirella Cisotto Nalon that opens on 17th November at the Oratory of San Rocco in Padua. On display, the works by Karin Roy Andersson, Bettina Speckner, Barbara Uderzo, Flora Vagi and Carla Riccoboni, who, alongside the most significant pieces of her historical production, presents Voci and Veli, her more recent works born a year after the SSV experience. One of the three pieces produced during the workshop will also be exhibited on the occasion.
Alice Rendon: Dear Carla, as a teacher in the History of Contemporary Jewellery at LAO, Giò Carbone appointed me to work alongside you as coordinator, to accompany you in the SSV project. Dialogue, between the two of us above all, has been a founding element of the whole work, a pivot on which the very existence of the project has revolved, and, in a similar way, I now find myself questioning you about the outcomes of this experience that was as ambitious and dense in content as it was overwhelming and complex for all those who took part in it, including myself. I myself could not resist diving headlong into the project: I wanted to stimulate the group to break free from any personalistic urges, merge efforts into a single collaborative solution, pour into a common creative ocean. Continuous confrontation has animated our many appointments: being open to each other’s input, absorbing stimuli and moving forward from there, in a continuous adaptive response as the only way forward for shared progress. I ask you today, after some time, what do you think are the contributions and what are the limitations of this plural experience. How do you judge the results achieved?
Carla Riccoboni: Indeed, SSV was a very exciting research work, which deeply involved all of us. It was not easy to confront collectively after the isolation for the pandemic, which had opened many questions, about the changes taking place, the role of goldsmithing, new technologies, the future. Working together on these complex issues allowed us to arrive at a remarkable theoretical depth and brought out a wealth of ideas, unthinkable with individual work. Some of the proposals remained anchored in craft traditions, but there were also very innovative ideas emerging, novel applications of technology – for example, the idea of jewellery that could interact with heat, wind, humidity (Annarita Bianco). Reflections also emerged on the need for protection from the intrusiveness of the outside, the need to put filters between oneself and the world. The difficulty was precisely arriving at a synthesis, respecting and valuing all individual contributions. Your intervention was impactful; it was important because it brought the initial choices to their logical conclusion. If the confrontation was collective, the final project also had to express a unified vision. During the week in-presence spent in the workshop, a very close-knit atmosphere and exchange of skills had been naturally created, despite the difference in cultural and professional backgrounds among the participants. At a distance of time, it seems to me that the final results of the work – the three objects, so dense with meaning – are a bit cold, hermetic, celebratory, since they express the concepts more philosophically than artistically. They talked about “wearable, modifiable, performant and customizable device that amplifies, enhances or even negates, certain senses and emotions”* about the first piece, “the relationship between uniqueness and plurality of voices”* on the second one, and “the relationship between voice and sight”* about the third one. It lacks that emotion that makes one intuit with immediacy the meanings, the creative passage, the synthesis proper to artistic making, which is probably an individual prerogative, not a collective one. This is perhaps the limitation of the work, but it does not detract from the validity of the path taken; on the contrary, it still leaves this possibility open. The group recognized itself in the observation of Simona Materi, one of the participants, who said, “We did not succeed in making a form, a pure form […] The objects we made are supports, not syntheses […] The petal itself, removed from the support, loses its evocative power […] We did not make objects, but an experience”.
Alice: The theme of sound vibration being organized into signs has somehow permeated the history and evolution of your career path since the late 1970s. At a distance of time, one could trace an ascending parabola, starting from the free pen transcription of airborne oscillations, namely noises and suggestions resolved in 10 m signs (the Rotolo); passing through the vocabulary of forms chained to each other to articulate silent discourses in the precious and non-precious matter (the Alphabet series); finally arriving at the weaving of impalpable Voices to form metallic Veils. In the three pieces made within SSV, the words of all the participants translated into graphic signs by the algorithm are superimposed in watermarks in a choral effort. Can you tell us how the group came up with this idea? How was this theme then resolved in your individual work following the collective experience?
Carla: Yes, there has definitely been an evolution, and I would like to reiterate that it was precisely the experience of SSV‘s collective work that gave me the impetus to arrive at Voci and Veli. When I introduced myself to the group at the beginning of the workshop, I told my professional story and showed my work, the goldsmith collections and the Rotolo, a visual poetry work of mine from 1979. At that time, I had not noticed any particular interest in it. Later, however, when the group was going through the design phase, the emotion aroused by an ancient Chinese poem resurrected the intuition that voice could become sign, or form. In the Rotolo I had turned sounds into ‘freehand’ signs; now, in 2021, an algorithm could automatically transform our voices into lines, signs, colors, which could be processed at will. Thus the ‘petal-voice’ was born, an image composed of the whole of our voices, translated into lines oriented to form a petal, in memory of Chinese poetry. If the voice, the privileged tool of communication, became form, it could also become object, with all the practical and symbolic implications of this concept. “Voice enables the concept of fusion, of layering of identities […] it cancels identity without destroying it: it makes it invisible even if it is present”*. “Listening to everyone’s voice [means] giving voice to everyone”*. I continued to think about these themes even after the workshop ended, imagining its new applications. I wanted to create simple jewels to visualize a phrase, a sound, to give voice and shape to personal or collective needs, to “wear your own voice”. I made the first pieces with laser cutting, the Voci collars and bracelets that will be in the exhibition. But for me, who did not belong to the digital generation, making these seemingly simple objects required a team of skills and multiple collaborations (I thank Claudia Zanella and Agostinelli Srl for the precious help) that limited and stiffened the results. I realized that there is something violent, authoritarian about technology. It is a rigid way of working, contrary to ‘thinking by doing,’ which instead proceeds softly, leaving room for emotion. After the omnipotent vertigo of algorithms, I needed to find human measure again, my own measure. I had absorbed, processed with great interest the contents of the collective research, felt the need to express them in my turn, but the technological tools blocked me. Hence the idea of dissolving necklaces and ornaments from my goldsmith history into an abstract, material symbolic form, like a veil: a wearable weaving in precious metal, made by hand. Even with hand-woven silver thread, one could give voice to important instances, to our fears, our dreams as well as to the great problems of our society. This transition led me back to the Rotolo. I started working again with the same freedom, with the same joy, turning emotions into signs, rhythms through my hands, with a technique that involved long, human work times, the times of thought, reflection, care… I rediscovered and worked with imperfection, with the imbalances and re-balances typical of contemporaneity.
Alice: During the long gestation of the project, we often found ourselves openly discussing the involvement of CAD/CAM processes in the creation of ornaments. You know, your artisan soul romantically reminds me of historical figures such as John Ruskin or his epigone William Morris, who railed against the cultural and sensory impoverishment caused by the mechanization of processes, or even Walter Gropius, who called the artist an “empowered craftsman”, whose inspiration can only blossom within practical exercise, from making with his hands. What, then, are the joys of measuring oneself directly with raw material? Assuming, however, that research jewellery is an artistic language endowed with its own independent critical perspective with respect to any other form of expression, and as such must ignite and open to reflection, doubt, and debate, do you think it can disregard addressing from within the complex question of new creative frontiers? In other words, if contemporary jewelry reflects, to paraphrase Giorgio Agamben, the shadows and lights of its contemporary, can it then avoid also measuring itself against the potential – and therefore the limits – of technological advances?
Carla: I do not feel nostalgic, I am not against progress, although in recent years, perhaps because of my age, I am rediscovering more and more every day the importance of the ‘human’ measure, of feelings, of emotions. I experience every day the usefulness of the many technological tools at my disposal, but also the annoyance of the increasingly pervasive dependence they create in my personal sphere. Like everyone, I ask myself questions, but I don’t find answers. Technology creates easy enthusiasm for the prospects it opens, but I think it is necessary to maintain a very critical spirit toward it. It opens frontiers that were unthinkable just a few years ago, which stimulate research but leave fundamental and ethical questions, about meaning, goals, limits, and consequences, in the shade. Is it right to explore technologies just because they are available? Does the field of goldsmithing really need to proceed on this path, on this kind of innovation? What if it becomes instead (or even) the privileged sphere, the guardian of human measure, of historical techniques, of the exercise of hand intelligence? Part of the SSV group, the younger and more trained people, interpreted this collective experience as “a practice and process that allowed us to explore the hybrid forms of coexistence and interaction between individuals, technology and nature”*. These are important reflections that I think are fair to report, but they presuppose an inevitable and inescapable acceptance of technological development with all its consequences. Does it really have to be so?
Alice: Padua is an exhibition setting of great significance if we dwell on the values with which your latest work in particular is imbued: “craftsmanship, memory, beauty”, as you yourself said. How, then, does this latest landing place in your professional journey, Voices and Veils, confront a heritage as dense as that bequeathed to us by the great Paduan masters? Considering the current panorama offered to us by the countless voices that animate an expanding field such as contemporary jewelry, what are the conceptual evolutions with which you had to measure yourself? How did you finally come to weave metal?
Carla: Padua represented for my generation the most important center of goldsmith experimentation. In Padua, researchers of great value such as Babetto, Pavan, Visintin, Zanella, have worked for three generations, applying classical goldsmithing techniques to the contemporary. I had met Mario Pinton, who in the 1970s in parallel with the one-of-a-kind piece had also given impetus to serial productions for the Atelier des Orfèvres in Longarone. My personal story is more related to seriality, to the area of Vicenza, an industrial center of goldsmith production where I have lived for many years now. Personally, I had no specific goldsmith training. I began to feel like a goldsmith when I started receiving the first awards for my Alphabet chain collection, which is actually a design object based on an interlocking system. If Padua had the merit of preserving and elaborating goldsmithing techniques, in Vicenza the goal was to achieve the maximum aesthetic result, containing processing costs. Vicenza then developed on the industrial chain and stamped goldsmithing. I was left with the positive design imprinting that makes research jewellery accessible to a wider, less elitist audience. This invitation to exhibit in Padua seems to me a recognition of this second mode of work, which complements and completes the Italian contemporary jewellery scene. Indeed, my historical pieces, the Alphabet chains, the Venezia and Madreforme collections will be on display. Voci and Veli represent the other, lesser-known side of my interests, such as the Rotolo and the Bisanzio necklaces, where my predisposition for meticulous work and perhaps my artistic sensibility emerges.
The exhibition, organized by the Municipality of Padua, will open 17th November at 6 p.m. and will be on view until 18th February, 2024. On 28th November at 3:30 p.m. Carla Riccoboni will lead the public on a guided tour of her work on display, in the company of the curator.
*quotes by participants in the SSV project